21 agosto 2014

Premessa

La definizione di valore è al cuore della teoria economica. Il valore costituisce infatti la grandezza fondamentale attorno a cui ruota l’economia. Da sempre gli economisti discutono sulla definizione di valore; le differenze in questa definizione sono alla base delle differenze tra le varie teorie economiche.

I principi di cui si parlerà in questa seconda parte sono molto semplici e intuitivi. Tuttavia, principi così fondamentali, e così riscontrabili nella vita quotidiana, in realtà non sono per nulla chiari alla grande maggioranza delle persone. Da qui deriva la grande confusione in economia che può portare la gente ad accettare, o persino a richiedere, misure in realtà controproducenti se non per una ristretta elite. Per questo ritengo che riflettere sul significato e sull'origine del valore sia di enorme importanza.

Cos'è il valore?

Cosa vuol dire che qualcosa, un oggetto o una quantità di una certa risorsa (materiale o immateriale) ha valore? Perché ha valore? Perché un bene ha più valore o meno valore di un altro?

Nella vita quotidiana consideriamo il valore come un concetto istintivo che non ha bisogno di elaborazioni; inoltre, pensiamo continuamente al valore delle risorse materiali in termini monetari, finendo per considerare il prezzo sul mercato come naturale definizione di valore.

In realtà, il valore esiste anche senza l'esistenza di un mercato, cioè di un contesto di scambi tra uomini, e senza l'esistenza del denaro. Anche un uomo da solo, o una comunità di uomini, compie continuamente scelte tra alternative diverse di usare le risorse di cui dispone, con l'obiettivo di ottenere ciò che al momento considera di maggior valore. L'uomo va a caccia, ad esempio, se la prospettiva di ottenere cibo ha maggior valore per lui rispetto a impiegare il tempo in un’altra attività. Lavora quando la prospettiva del frutto del suo lavoro per lui vale di più del non far nulla.

Già pensando al caso di un solo individuo, si intuisce che il valore di una certa cosa è misurabile solo in termini di qualcos’altro a cui si è disposti a rinunciare per ottenerla, o anche solo avere la prospettiva di ottenerla (indipendentemente dal fatto che vi sia interesse o meno ad effettuare una tale misura o che essa sia fatta consciamente o meno). Già nel caso di un solo individuo, qualcosa che egli vorrebbe anche ardentemente ma che non può ottenere in alcun modo usando le risorse che ha (cioè “spendendole”) si può definire “inestimabile”.

E' intuitivo, inoltre, che il valore che un individuo attribuisce a un certo bene dipende dalla situazione in cui si trova: se ha poca acqua e quindi molta sete, a parità di altre risorse ciò a cui sarà disposto a rinunciare per un litro d’acqua è sicuramente più di ciò a cui sarà disposto a rinunciare per un litro d’acqua se ha a disposizione acqua in abbondanza. E se ci sono più alternative possibili per procurarsi qualcosa che desidera, l'uomo tenderà a scegliere l'alternativa che gli costa meno in termini di risorse secondo la sua personale valutazione (in generale in questa valutazione sono incluse non solo risorse materiali ma anche, ad esempio, eventuali rischi, oppure possibili benefici futuri derivabili dalla scelta di un’alternativa rispetto ad un’altra, eccetera).

L'utilità marginale

Il concetto di “utilità marginale” esprime il fatto che l’utilità di una stessa quantità di una risorsa decresce all’aumentare della quantità che ne abbiamo già a disposizione. Se abbiamo a disposizione un po’ d’acqua soltanto, sarà molto preziosa e la useremo solo per bere; se ne abbiamo in maggiore quantità, la useremo anche per lavarci; se ne abbiamo ancora di più la useremo anche ad esempio per innaffiare, e così via. Quello a cui saremo disposti a rinunciare per una ulteriore quantità d'acqua si ridurrà man mano che aumenta la quantità d’acqua che già abbiamo a disposizione (supponendo, senza perdita di generalità, che le altre risorse a nostra disposizione rimangano nella stessa quantità), cioè diminuirà il valore che attribuiamo alla stessa quantità di acqua. E’ il principio per cui ad esempio un uomo ricco è disposto a spendere cinquemila euro per un abito mentre un uomo non ricco no, nonostante anche lui possieda cinquemila euro e l’abito gli piaccia come al ricco: per l’uomo non ricco cinquemila euro valgono di più che per l’uomo ricco!

Gli uomini però sono diversi l’uno dall’altro nelle loro valutazioni economiche e nei loro desideri: può benissimo essere che un uomo ricco non ci pensi nemmeno a spendere cinquemila euro per un abito (in generale nessuno diventa ricco perché ama spendere molto), e invece un uomo non ricco sia disposto a rinunciare a tutto quello che potrebbe fare con i cinquemila euro pur di avere l’abito. Il principio di utilità marginale non significa che chi ha maggiori quantità di una certa risorsa attribuisca immancabilmente minor valore ad una stessa ulteriore quantità di chi ne ha meno. Il principio vale per ogni singolo individuo: più ha di una certa risorsa, minore diventa per lui il valore di una ulteriore quantità.

La soggettività del valore

Dovrebbe essere evidente a questo punto che il valore di un bene non è una grandezza oggettiva propria di quel bene. Il valore di un bene esiste soltanto se c’è qualcuno che desidera averlo ed è disposto a rinunciare a qualcos’altro per averlo. Il valore è soggettivamente attribuito dagli uomini e il valore attribuito alla stessa cosa non è in generale uguale per tutti gli uomini, né per lo stesso individuo in tempi diversi. Un bene di per s, senza che nessuno sappia della sua esistenza o abbia possibilità di procurarselo, non ha alcun valore. Il valore non è una proprietà di un oggetto come invece è ad esempio la sua massa. Il valore esprime una relazione tra esseri umani e beni che può anche repentinamente cambiare per i più svariati motivi senza che sia minimamente cambiato l’oggetto del valore.

Abbiamo visto che la soggettività del valore vale anche per il denaro, che pure è universalmente usato come unità di misura del valore. Il denaro è una risorsa come le altre. Non ha niente a che vedere con le unità di misura della fisica, che sono definite in modo (per quanto possibile) assoluto. Quando diciamo che ad esempio una casa vale trecentomila euro, intendiamo che “è verosimile che ci sia qualcuno disposto a rinunciare a trecentomila euro per entrare in possesso della casa”. Il valore attuale di un’azione quotata in borsa è il prezzo dell’ultimo contratto. Senza un venditore e un compratore (anche se solo in prospettiva futura) non ha alcun senso parlare di valore in termini monetari.

Lo scambio di beni

Lo scambio volontario di beni è un aspetto fondamentale della collaborazione tra esseri umani al fine di migliorare la propria condizione di vita. Rende possibile a livelli crescenti la “divisione del lavoro”, tramite la quale l’efficienza nella produzione può aumentare in modo formidabile. Ognuno produce soprattutto quello che gli riesce meglio, per le sue inclinazioni o conoscenze o anche solo per le caratteristiche del suo territorio. Una società di uomini ognuno dei quali è completamente autarchico rimane sempre ad un livello primitivo e verosimilmente vulnerabile agli eventi naturali, per questo l’uomo è spinto innanzitutto a organizzarsi in comunità con impegni di mutua collaborazione. Anche la comunità più chiusa apprezza poi i vantaggi dello scambio con persone esterne alla comunità. Nasce il mercato, che è un insieme di scambi di beni ognuno dei quali avviene tra due individui (o associazioni di individui).

Quando e perché può avvenire uno scambio di beni tra due individui? Abbiamo visto che il valore di un bene è soggettivo. Lo scambio può avvenire quando ognuno dei due individui attribuisce un valore maggiore al bene che l’altro possiede rispetto al bene che possiede egli stesso. Lo scambio avviene quindi se è considerato vantaggioso da entrambi gli individui coinvolti. E’ proprio la disuguaglianza di valore attribuita da diversi individui alla stessa cosa che rende possibile lo scambio a mutuo vantaggio. Contrariamente a quanto spesso si pensa, lo scambio di beni non implica l’uguaglianza di valore tra i due beni, bensì una disuguaglianza tra le soggettive valutazioni dei due beni da parte dei due proprietari.

Ne consegue che, una volta effettuato lo scambio, se uno dei due individui cambia idea, non può chiedere di “tornare indietro” scambiando esattamente gli stessi beni, in quanto lo scambio inverso è dichiaratamente svantaggioso per l’altro. Ci sono tante situazioni in cui è verosimile che lo scambio inverso sia accettato, ad esempio se c'è qualche tipo di garanzia “soddisfatti o rimborsati” per invogliare l’acquisto; ma questo non modifica il fatto che se qualcuno accetta uno scambio, fintantoché la sua valutazione dei beni scambiati non si modifica (cosa che è sempre possibile in qualsiasi momento dopo lo scambio), lo scambio inverso è per lui svantaggioso. Se un compratore acquista da un venditore qualcosa per 10 euro, e se il venditore non ha sottoscritto impegni in questo senso, il compratore non può in seguito pretendere di riavere i 10 euro in cambio dello stesso bene; il venditore ha tutto il diritto, ad esempio, di offrirne 8, o anche nessuno; pretendere indietro i 10 euro è disonesto da parte del compratore. Ribadisco, questo vale se il venditore non si era impegnato in questo senso; sottolineo anche che il caso di frode (il bene non è quello pattuito) è un argomento del tutto diverso.

Uno scambio veramente elementare è, ad esempio, lo scambio di figurine doppie tra due bambini. Entrambi hanno una figurina doppia e a entrambi manca la figurina che l’altro ha doppia. Lo scambio di una figurina per l’altra è evidentemente a mutuo vantaggio, così come è evidente la differenza di valore attribuita alla stessa figurina da parte dei due bambini. Avvenuto lo scambio, tornare indietro significherebbe per ognuno scambiare una figurina di cui ha un solo esemplare per una che ha già, scambio svantaggioso per entrambi.

Tutti gli scambi volontari di beni avvengono con questo principio. Qualsiasi scambio volontario, dall’acquisto di patate al mercato all’acquisto dei più machiavellici prodotti finanziari, consiste nella cessione di un bene da parte del proprietario (o chi ha le deleghe) in cambio di un altro bene. Quasi sempre almeno uno dei due beni è costituito da denaro. I beni ceduti possono essere qualcosa che è immediatamente trasferito all’altra parte, oppure possono essere promesse (in genere vincolanti!) di consegne future, anche da parte di una terza parte, o anche promesse condizionate di consegne future (ad esempio, quando si stipula un’assicurazione, o si fa una scommessa). In tutti i casi lo scambio avviene perché è considerato vantaggioso da entrambe le parti, in base a valutazioni soggettive che possono tenere in conto le più svariate circostanze.

Un contratto di lavoro è, da questo punto di vista, uno scambio come gli altri, tra il lavoro di un individuo e somme di denaro, generalmente continuativo, come possono essere anche altri scambi. Ogni individuo è proprietario della sua capacità di compiere lavoro (se non è così è in una condizione di schiavitù) e può scambiare il suo lavoro con qualcos’altro, quando ritiene che lo scambio sia vantaggioso.

Teoria soggettiva e teoria oggettiva del valore

La teoria soggettiva del valore (di cui si è parlato fin qui) è alla base della teoria economica della Scuola Austriaca. Fu formulata da Carl Menger (considerato il fondatore della Scuola Austriaca) e poi ampliata e discussa dagli altri "austriaci".

Però già i pensatori scolastici medievali della Scuola di Salamanca, che per primi si occuparono di teoria economica, avevano ben chiaro che il valore è soggettivo e nasce da quanto qualcuno ritiene che un bene possa venire incontro ai propri desideri.

Tuttavia, non è questo che sostiene la teoria economica keynesiana che domina gran parte del mondo occidentale e di cui sono imbevute le idee di quasi tutti. La teoria del valore dominante è la labour theory of value, che è alla base del pensiero di Karl Marx, ed è presente in germe anche nelle parti peggiori dell’opera di Adam Smith; secondo questa definizione, il valore di un bene è direttamente legato alla quantità di lavoro che ci vuole per produrlo.

Anche Marx sapeva che il valore è soggettivo. E’ talmente ovvio che neanche lui poteva negarlo. Secondo Marx, però, lo sviluppo dei metodi di produzione era ormai divenuto completo e non più evolvibile. Il valore attribuito ai beni era fissato una volta per tutte e, anche se era sorto in passato per ragioni soggettive, ora il valore di un bene dipendeva dal lavoro per produrlo.

E’ solo sulla base della teoria che lega il valore al lavoro che è possibile sostenere che il capitalista sfrutta il lavoratore defraudandolo del plusvalore prodotto dal suo lavoro. Poi, siccome il capitalista depreda il lavoratore di quello che è suo e gli spetterebbe, ne consegue che il capitalista fa diventare sempre più povero il lavoratore. Da qui la necessità di eliminare la proprietà privata e qualsiasi libertà dell’uomo, con il risultato prevedibile e previsto di far piombare tutti nella miseria materiale e morale.

Partendo dalla labour theory of value, si arriva a idee come quella di mettere degli operai a scavar buche e altri operai contemporaneamente a coprire le stesse buche. Tanto è il lavoro che crea valore. Si conclude che evidentemente la distruzione è foriera di prosperità, visto che per forza dopo la distruzione si lavora molto.

Anche senza essere marxisti ma semplicemente keynesiani, dopo aver dedicato qualche parola di facciata in difesa della proprietà privata e del mercato (all'epoca di Keynes - anni '30 - ormai era diventato chiaro che senza di questi si muore di fame[1]), la teoria economica diventa che per ottenere prosperità occorre che lo stato prelevi le risorse dei cittadini che producono, crei denaro dal nulla, addirittura si indebiti senza limiti, pur di poter spendere e creare “posti di lavoro” che stimoleranno la crescita dell’economia (Paul Krugman – premio Nobel per l’economia e keynesiano per eccellenza – in sostanza dice proprio questo); è il lavoro che crea valore, no?

La nozione che esista un valore oggettivo del lavoro pone le basi per leggi come quelle che stabiliscono un salario minimo obbligatorio, causando disoccupazione, quindi minore produzione e spreco di risorse, e quindi prezzi più alti, annullando ogni vantaggio guadagnato con la legge di salario minimo anche per chi ha un salario più alto solo grazie alla legge.

Ora, è evidente che per acquistare qualcosa che ha richiesto molto lavoro bisogna essere disposti a pagare molto. Si vorrebbe pagare il meno possibile, ma in generale non si trova sul mercato qualcosa la cui vendita non copre le spese di produzione, e il lavoro costa.

Nessuno è disposto a spendere per il lavoro che c'è voluto per un prodotto. Il compratore è disposto a spendere per il prodotto finito. Se anche un prodotto ha richiesto tanto lavoro ma non risulta gradito a nessuno, non ha alcun valore.

E’ il valore del prodotto che dà valore al lavoro per produrlo, non viceversa. Cioè, la prospettiva di quanto qualcuno sarà disposto a spendere per avere un prodotto fa sì che un imprenditore possa essere disposto a spendere per il lavoro che ci vuole per produrlo.

Creare “posti di lavoro” in cui quello che si produce non ha valore per nessuno, oppure ha un valore molto inferiore a quanto è costato produrlo, davvero può “stimolare la crescita”?

Ci viene spiegato dagli economisti keynesiani che, spendendo per questi posti di lavoro, si mette in circolo del denaro, in quanto i beneficiari di queste spese dello stato spenderanno il denaro che ricevono ... si stimola la domanda facendo crescere l’economia.

L’idea che spesa e consumo superiori a produzione possano creare prosperità dovrebbe lasciare un po' perplessi. L'inghippo è che per i keynesiani quella "produzione" ha valore, in quanto deriva da lavoro. Per gli austriaci non ha valore, in quanto nessuno soggettivamente è disposto a spendere per i prodotti di quel lavoro. Senza la labour theory of value, la teoria keynesiana crolla all'istante. Per questo è così fondamentale riflettere sul concetto di valore.

Ribadisco questo punto per sottolineare ancora una volta l'importanza della comprensione di cosa è il valore. Tutte le politiche interventiste in economia, di stampo keynesiano se non apertamente socialiste, basano la loro ragionevolezza sulla teoria oggettiva del valore (labour theory of value). Solo sulla base di questa definizione di valore si può sostenere che tali misure possono portare benefici all'economia. Si tratta di una definizione che equipara il valore prodotto dal lavoro di un impiegato statale magari in un ufficio completamente inutile a quello prodotto, ad esempio, da  un contadino che produce cibo da vendere sul mercato. Equipara, ai fini degli effetti sull'economia, la spesa dello stato agli investimenti privati degli imprenditori, che non hanno altro modo di operare se non soddisfacendo i desideri dei consumatori sul mercato. Se non vale quella definizione, diventa immediatamente chiaro che quelle misure non possono "aiutare l'economia".

Torneremo in seguito in modo specifico sugli effetti delle politiche interventiste in economia, dopo aver visto, nelle prossime due parti, i principi del denaro e dei meccanismi di mercato.

(Maria Missiroli)

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Introduzione all'economia

1. Cos'è l'economia

2. La teoria del valore

3. Il denaro

4. Il mercato

5. L'espansione del credito e il business cycle


[1]Nel 1922 von Mises aveva dimostrato l'impossibilità del calcolo economico in un regime puramente socialista, ovvero aveva dimostrato che un regime socialista non può funzionare dal punto di vista economico, costringendo gli accademici socialisti a cercare scappatoie. E' ironico, e mostra la incredibile distorsione che regna in economia, il fatto che sia luogo comune la frase "Keynes ha salvato il capitalismo", mentre, delle due, è molto più aderente alla realtà l'affermazione "Keynes ha salvato il socialismo".

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