(aprile 2016)

Cosa sono state le campagne presidenziali di Ron Paul del 2008 e del 2012 lo sa solo chi le ha seguite attentamente, fosse pure geograficamente da lontano. Si è trattato di qualcosa di così diverso da quello a cui siamo abituati che è difficile immaginarlo senza vederlo personalmente. I media tradizionali ne hanno dato un resoconto immancabilmente distorto, legato ai criteri standard per giudicare le campagne dei candidati.

Ron Paul era sempre stato lì, coerente per decenni nella sua attività politica e nei discorsi e voti espressi come membro del Congresso. Aveva già fatto una campagna presidenziale, per il Partito Libertario, alcuni anni prima. Tutto il mondo politico rilevante sapeva chi era. Le masse no.

Come raccontato in questo articolo, fu un dibattito televisivo a maggio 2007 a dar vita alla "Ron Paul Revolution". Ron Paul dice qualcosa sull'11 settembre, Rudy Giuliani ascolta inorridito e chiede che ritratti, Ron Paul non cede di un millimetro e continua con la sua logica inappuntabile, schernito da tutti, candidati e moderatori. Più volte, nei dibattiti successivi, Ron Paul avviserà i suoi colleghi candidati alle primarie del partito Repubblicano: "Il tema cruciale è la politica estera. Continueremo a perdere le elezioni continuando con la retorica di attaccare tutto e tutti." E le elezioni furono perse, nel 2008 e nel 2012. Il pubblico americano è veramente stufo di guerre che drenano risorse e non concludono nulla, se non creare la necessità di ancora più guerre.

Nel 2000, Bush fu eletto proprio grazie ad una piattaforma di politica estera molto moderata. Poi ci fu l'11 settembre, e la politica estera fu tutt'altro che moderata. Obama, grosso modo la stessa cosa: fu eletto perché promise la pace, si è mostrato - non imprevedibilmente - guerrafondaio come gli altri.

Ron Paul scatenò l'entusiasmo soprattutto dei giovani, in un modo mai visto in tempi recenti. I giovani sono quelli che più si informano su Internet. Poi c'era la fetta di americani spontaneamente libertari ad essere entusiasti. Gli elettori standard e soprattutto i più anziani, legati ai canali di informazione tradizionali, non seppero mai bene chi era e cosa diceva Ron Paul. I numeri forse non furono mai enormi in senso assoluto, ma l'entusiasmo di quei giovani fu straordinario. Hillary Clinton, trovandosi anni dopo di fronte a Ron Paul in un'audizione al Congresso, gli disse con più di una punta di invidia: "Una cosa volevo dirle: i suoi supporter erano quelli più entusiasti tra quelli di qualsiasi candidato".

Le campagne di Ron Paul furono dichiaratamente battaglie di idee, le idee che "sono più  potenti degli eserciti" quando "arriva il loro tempo". Sicuramente non tutti gli entusiasti volontari e sostenitori colsero la profondità di quelle idee, né capirono da quanto venivano lontano. Non tutti sapevano chi era stato von Mises, o avevano afferrato i rudimenti dell'economia austriaca. Ron Paul parlava di libertà e di pace, e soprattutto era contro l'establishment, questo bastava. Non so quanti tra quelli che gridavano "End the Fed" ai suoi comizi avevano capito a fondo perché sarebbe meglio chiudere la Federal Reserve e perché è così importante. Però l'umanità, l'intelligenza e l'umiltà di Ron Paul erano percepibili a tutti.

L'establishment reagì con stizza, mettendo in atto tutti i trucchi standard per controbattere ad un candidato non allineato: la flagrante denigrazione sui media, spazio negato nei dibattiti, poi nel 2012 qualche probabile aggiustamento dei risultati delle primarie e dei caucus, l'ostracismo verso i suoi delegati. Arrivati alla convention del 2012, il partito repubblicano riscrisse perfino le proprie regole, in modo di impedire a Ron Paul di essere eleggibile alla convention. Tutto sommato, lo videro sempre come un pericolo agevolmente gestibile.

Non mancò naturalmente una delle tecniche di denigrazione standard: l'accusa di razzismo. Come ho già scritto qui, l'assurdità di questa accusa e il modo in cui fu costantemente ripetuta ebbero l'effetto di far aprire gli occhi a molta gente sulla reale natura delle opinioni espresse sui media.

Ma le insidie per Ron Paul e la sua campagna vennero anche dall'interno. Il fatto è che Ron Paul aveva accumulato un capitale politico enorme, e questo ingolosì molti, tra cui il figlio stesso di Ron Paul, Rand. E' incredibile l'effetto che il potere - o la prospettiva del potere - può avere sulle persone. Ron Paul stesso ne ha parlato tante volte, pur essendo proprio lui la più lampante delle eccezioni.

Rand pensò che compromettendo in parte le idee del padre per compiacere l'establishment sarebbe stato accettato dall'establishment e al tempo stesso avrebbe mantenuto l'enorme seguito libertario di Ron Paul. Così fu che cascò nella trappola. L'establishment per un po' lo lusingò, gli diede spazio, mentre il seguito libertario man mano lo abbandonava. Alla fine, come era prevedibile, l'establishment si è liberato di Rand. Con i compromessi sulle idee non si va da nessuna parte in politica.

Ron Paul, da parte sua, ha appoggiato solo tiepidamente il figlio nelle sue attività politiche di questi anni, continuando imperterrito a dire quello che ha sempre detto. Ha dato le dimissioni dal Congresso a fine 2012 e si dedica a diffondere idee libertarie. Caso più unico che raro nel mondo della politica, tutto quel capitale politico non lo ha cambiato di una virgola.

E ora fast-forward al 2016. Sulla scena repubblicana irrompe il famosissimo magnate immobiliare e personaggio televisivo Donald Trump.

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