Le diverse dichiarazioni governative in merito a un rilancio degli investimenti pubblici hanno ringalluzzito i tanti keynesiani italiani, tra i quali Gustavo Piga.

Del quale il Sole 24Ore ha ospitato qualche settimana fa un articolo che comincia così:

Fa bene il Ministro Tria a parlare di un «grande piano di rilancio degli investimenti pubblici in infrastrutture», era da tempo che aspettavamo una simile proposta da tanti suoi predecessori.”

Piga deve aver respirato a pieni polmoni questo vento keynesiano pentaleghista, come se fosse la premessa per un rilancio dell’Italia.

Naturalmente un Piano deve per avere successo essere basato su di una strategia che affondi le sue radici sull’analisi delle complesse cause che hanno portato il Ministro a parlare di rilancio: dove e quando si è bloccata la macchina delle infrastrutture in Italia? Solo esaminando la peculiare situazione più recente degli investimenti pubblici in Italia potremo rendere credibile il Piano e non vederlo tramutato nell’ennesimo futile esercizio di parole in libertà. Il Ministro, nel suo comunicato, pare individuare due grandi temi: spendere di più e spendere meglio, senza dare un’enfasi maggiore ad uno dei due, ed a ragione, perché non c’è dubbio che ambedue vadano affrontati con uguale determinazione.”

 

Beh, nessun piano potrebbe avere la P maiuscola se non si trattasse di spendere di più e spendere meglio. Anche se non è la prima volta che nella storia repubblicana si ipotizzano piani del genere. Il debito pubblico dipende anche dai tanti buoni propositi di piani di questo tipo, nei quali l’esoterico moltiplicatore ha dispiegato i suoi effetti dalla parte sbagliata.

Ma ogni nuovo piano porta con sé la premessa (e promessa) che questa volta sarà diverso. Il che è anche sempre stato vero in parte, nel senso che ogni volta c’era qualcosa di peggio rispetto alla precedente.

Il dato di partenza, il calo degli investimenti pubblici di questo decennio, è incontrovertibile e drammatico: diminuzione in valore reale del 6% annuo dal 2010 al 2015, discesa del loro peso dal 3 al 2% del Pil tra prima e dopo le crisi del 2008 e del 2011.”

Colpa, inutile dirlo, dell’austerità.

Non c’è dubbio alcuno che negli anni della crisi economica gli stanziamenti si sono ridotti per venire incontro alle incongruenti e dissennate politiche europee dell’austerità. Di fronte ad una crisi da carenza di domanda che avrebbe dovuto essere, come negli Stati Uniti - sia negli anni Trenta (Roosevelt) che agli albori di questo secolo (Obama) - risolta con l’intervento pubblico a sospingere proprio gli investimenti pubblici così da ristabilire ottimismo e ripresa dell’attività d'impresa, si è voluto piuttosto prediligere una richiesta di rientro del deficit verso il pareggio.”

Sugli effetti di incremento del debito verificatisi in entrambi i casi citati Piga non dice nulla. Né ricorda che il debito pubblico italiano è già difficilmente sostenibile senza incrementarlo ulteriormente. Il che, in sostanza, comporta che un contenimento della spesa pubblica (peraltro mai scesa in termini complessivi) fosse inevitabile e lo sia ancora.

Piga, bontà sua, riconosce perché si sia ridotta la spesa per investimenti: “essendo le generazioni future quelle che più hanno da guadagnare da questa componente del bilancio, e queste ultime non votando, è naturale che i politici abbiano scaricato le richieste austere europee sulla riduzione di capacità infrastrutturale del Paese.”

 

Attenzione: Piga dà per scontato che gli investimenti pubblici siano tutti esenti da sprechi, ipotesi abbastanza irrealistica in generale e in Italia in particolare.

In ogni caso, quanto aumentare questa spesa?

 

La risposta differirà a seconda del deficit su Pil che questo Governo vorrà confermare per il 2019. Limitandosi ad un 2%, è evidente come le risorse potranno venire solo dalla rinuncia al non aumentare l’Iva, lasciando che le clausole di salvaguardia si attivino, e dedicando i circa 10 miliardi disponibili agli investimenti pubblici. È solo scrivendo 3% sul deficit 2019 nella nota di aggiornamento al Def di fine settembre che il Governo potrebbe sia evitare l’aumento dell’Iva che permettere quello degli investimenti; ovviamente, sia ben chiaro, senza spazio per reddito di cittadinanza o flat tax: ma se il Piano deve essere “grande”, non può né deve esistere una alternativa. O no?

Piga pare non essere particolarmente preoccupato sulla praticabilità di quanto propone, né sembra essere sfiorato dal dubbio che gli effetti siano più forti e duraturi sull’incremento del debito rispetto al Pil.

 

Riconosce, però, che sia necessario spendere meglio.

 

È evidente che spendere meglio negli appalti pubblici in Italia richiede innanzitutto una rivoluzione organizzativa che rimetta al centro la questione delle competenze dei responsabili delle stazioni appaltanti, dal momento della stima del fabbisogno a quello della gara a quello infine del controllo durante la vita del contratto. Per avere a disposizione i migliori, tuttavia, come nel resto del mondo avanzato, è necessario che siano soddisfatti alcuni prerequisiti: primo, bisogna sapere motivarli e trattenerli, pagandoli, e tanto; secondo, bisogna saperne controllare la loro performance, investendo sui dati e sulla loro analisi; terzo, bisogna permettere loro di acquisire esperienza, smettendola di parlare di rotazione e creando una carriera di lungo periodo del “professionista degli appalti”, come quella di un giudice o di un diplomatico; quarto, bisogna lavorare costantemente sulle loro competenze (da due anni il decreto per la qualificazione delle stazioni appaltanti è misteriosamente nascosto presso il Ministero delle Infrastrutture, possiamo finalmente desecretarlo e avviare un dibattito pubblico su di esso?).”

Vasto programma, avrebbe detto lo statalista francese De Gaulle. Dal quale si evince che per spendere forse meglio è necessario intanto spendere di più.

Io ci andrei piano con il Piano.

(Matteo Corsini)

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