Sarà probabilmente uno dei tormentoni della campagna elettorale per le prossime elezioni politiche. Mi riferisco alla fatica letteraria di Matteo Renzi, intitolata “Avanti”.

Da quanto par di capire leggendo le anticipazioni fornite dai mezzi di informazione, si tratta di un manuale di renzismo, che contiene più o meno tutte i cavalli di battaglia di uno che continua a presentarsi come il nuovo che avanza.

In tema di finanza pubblica, Renzi sostiene che l’Italia debba porre il veto all’inserimento nei Trattati del Fiscal Compact, oltre a proporre (pretendere?) dall’Unione europea un patto quinquennale in base al quale si ridurrebbe il rapporto  tra debito e Pil, aumentando però il deficit fino al 2,9 per cento annuo, ossia al limite dell’originario parametro di Maastricht.

Come sempre i numeri non sono fondamentali per la narrazione renziana. Ecco il Renzi pensiero:

Per la mia generazione questa cittadina olandese dal nome difficilmente pronunciabile era sinonimo di austerità. Stare dentro i parametri di Maastricht sembrava un’impresa quasi impossibile, al punto che quando l’Italia raggiunse quel traguardo per molti fu festa grande. Oggi Maastricht – paradossalmente – ha cambiato significato. L’avvento scriteriato del Fiscal compact nel 2012 fa del ritorno agli obiettivi di Maastricht (deficit al 3% per avere una crescita intorno al 2%) una sorta di manifesto progressista.”

Ciò che si mette tra parentesi dovrebbe essere di non primaria importanza, cosicché se un lettore ne salta il contenuto non perde il significato fondamentale del periodo. In questo caso, invece, il contenuto tra parentesi è indicativo della concezione erronea che Renzi ha del parametro sul deficit.

Non è che per avere una crescita del Pil intorno al 2% serva un deficit al 3%. Semplicemente all’epoca si considerava che partendo da un debito attorno al 60% del Pil (la media dei principali Paesi membri, anche se l’Italia era già al doppio), con una crescita nominale del Pil del 5% (3% reale e 2% di deflatore) e interessi sul debito più o meno allo stesso livello fosse possibile mantenere stabile il rapporto tra debito e Pil.

In Italia, però, Renzi non è l’unico a pensare che il deficit serva a far crescere l’economia. Ciò anche se la storia repubblicana dovrebbe dimostrare che l’accumulazione di deficit abbia portato a un debito cresciuto ben più del Pil. Con un problema: quando il Pil non cresce o decresce, il debito non fa altrettanto, quindi la sua incidenza sul Pil tende ad aumentare. E più è alto il dato di partenza del rapporto, peggiore è l’effetto “palla di neve”.

Noi pensiamo che l’Italia debba porre il veto all’introduzione del Fiscal compact nei trattati e stabilire un percorso a lungo termine. Un accordo forte con le istituzioni europee, rinegoziato ogni cinque anni e non ogni cinque mesi. Un accordo in cui l’Italia si impegna a ridurre il rapporto debito/Pil tramite sia una crescita più forte, sia un’operazione sul patrimonio che la Cassa depositi e prestiti e il ministero dell’Economia e delle Finanze hanno già studiato, sebbene debba essere perfezionata; essa potrà essere proposta all’Unione europea solo con un accordo di legislatura e in cambio del via libera al ritorno per almeno cinque anni ai criteri di Maastricht con il deficit al 2,9%. Ciò permetterà al nostro paese di avere a disposizione una cifra di almeno 30 miliardi di euro per i prossimi cinque anni per ridurre la pressione fiscale e rimodellare le strategie di crescita. La mia proposta è semplice: questo spazio fiscale va utilizzato tutto, e soltanto per la riduzione delle tasse, per continuare l’operazione strutturale iniziata nei mille giorni.”

Prendiamo le condizioni attuali di finanza pubblica. A fine 2016 il debito era al 132,6% del Pil, con un avanzo primario all’1,5% e una spesa per interessi attorno al 3,9% del Pil. Renzi crede che facendo più deficit il Pil posa crescere più velocemente.

Certamente ogni ipotesi di riduzione delle tasse ha senso, ma per avere effetti strutturali deve essere considerata strutturale a sua volta. E solo se la riduzione delle tasse va di pari passo a una riduzione di spesa strutturale può essere considerata strutturale. Renzi non ne parla, tirando invece in ballo una “operazione sul patrimonio”. Questo tipo di operazioni (che vanno poi valutate nel merito) hanno senso se complementari a una riduzione del perimetro statale in termini di spesa e tassazione. Altrimenti possono portare una riduzione temporanea del debito, salvo poi tornare al punto di partenza nel giro di qualche anno.

Ebbene, portare il deficit al limite del 3% in un contesto di spesa per interessi tenuta artificialmente bassa dalla Bce è un azzardo notevole, considerando che vorrebbe dire ridurre di almeno un punto l’avanzo primario, portandolo verso zero. Probabilmente Renzi immagina crescite del Pil pari o superiori al 2% annuo, ipotesi che peraltro è abbastanza azzardata. E suppongo che, nel frattempo, ipotizzi anche che a livello internazionale il vento sia in poppa costantemente.

Io credo che si tratti di illusioni, con il rischio consistente di trovarsi alla prima occasione di crisi ad avere un’esplosione del debito e a nuove stagioni “Monti”.

Insomma, andremmo Avanti, ma verso il burrone.

(Matteo Corsini)

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