In Italia, come noto, abbondano gli ordini professionali, tipica espressione del modello corporativista. Col passare del tempo, invece che diminuire, il numero degli ordini tende ad aumentare, anche se non al pari delle richieste provenienti da questa o quella associazione volta a ritenere il riconoscimento pubblico di ordine professionale.

Altrettanto nota è la lamentela da parte degli esponenti degli ordini in merito alla mancanza, peraltro in essere da pochi anni, di un tariffario minimo vincolante, oggi definito “equo compenso”.

Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, sembra sensibile alle richieste dei professionisti:

C’è spazio per lavorare sul tema dell’equo compenso”, argomento che “va giustamente affrontato in quanto è legittimo che ci sia qualche “standard” cui riferirsi per definire il livello che tutti quanti definiamo equo compenso.”

In realtà ogni compenso è equo quando concordato volontariamente tra le parti. Quella che va sotto la richiesta di introduzione di un “equo compenso” non è altro che la volontà protezionistica di reintrodurre un tariffario minimo.

I professionisti sostengono che a prezzi bassi corrisponde una qualità altrettanto bassa della prestazione professionale. Il che può essere vero, ma lo stesso si può affermare riferendosi ai prezzi praticati da un ristorante o da un negozio di abbigliamento.

Nulla vieta a un cliente di rivolgersi a un professionista che pratica prezzi più elevati di altri in virtù di competenze riconosciutegli superiori a quelle dei concorrenti.

E forse è proprio questo il problema: la concorrenza. Una brutta bestia, che piace solo quando si è consumatori.

(Matteo Corsini)

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