Mi capita con una certa frequenza di occuparmi dei nostalgici della monetizzazione del debito pubblico che vivono ancora oggi come un lutto il cosiddetto divorzio del 1981 tra la Banca d’Italia e il Tesoro. Per costoro, quello fu il primo atto della perdita di sovranità monetaria, a cui seguì, undici anni dopo, la firma del Trattato di Maastricht che poneva le basi per l’unione monetaria.

Tra questi signori citerei Roberto Sommella, che in un articolo su MF scrive che in quegli anni l’Italia “si è privata di quella leva con cui ogni stato stabilisce il costo del suo debito e di fatto lo ripiana.”

Qui i “sovranisti” monetari omettono alcuni dettagli non proprio insignificanti. Per stabilire il costo del proprio debito è necessario imporre una repressione finanziaria agli operatori domestici, mediante limiti/divieti all’esportazione di capitali e vincoli di portafoglio. Che poi era quanto aveva accompagnato i magnifici e rimpianti (da costoro) anni precedenti il “divorzio”.

Non a caso era molto in voga in quel periodo la figura dello “spallone”, ossia di colui che trasportava clandestinamente denaro in Svizzera per conto dei legittimi proprietari. Denaro che fuggiva dalla tassazione confiscatoria (e dai timori di ulteriori restringimenti), oltre che dai vincoli sopra citati.

Per di più è discutibile che, anche mantenendo una severa repressione finanziaria, ciò consenta di evitare le conseguenze della monetizzazione del debito, con pesante svalutazione della moneta e inflazione potenzialmente fuori controllo.

Sommella fa poi questo strano ragionamento sull’aumento del rapporto tra debito pubblico e Pil durante gli anni 80:

Non suoni perciò come una giustificazione, ma quando si ricorda che nei quattro anni dell’esecutivo Craxi il debito pubblico è passato dal 65 al 90 del pil occorre anche andare a vedere cosa muoveva questo boom della spesa, perché sempre nello stesso periodo il pil reale è cresciuto tra il 3 e il 4%, livello mai più raggiunto, anche quando il debito è diminuito, tra il 1997 e il 2009. In altri termini, l’indebitamento produceva crescita e poi tutto ciò è finito perché al primo si è messo un tetto del 3% e la seconda è rimasta solo un’enunciazione nel Patto di stabilità.”

La nostalgia, suppongo, può giocare brutti scherzi. Se si sostiene che la crescita finanziata in deficit è un affarone, occorre che i numeri dimostrino che il Pil aumenta più del debito, ossia che vi è un effetto leva positivo o che funziona il meraviglioso moltiplicatore keynesiano.

Al contrario, se il Pil aumenta, ma al tempo stesso il debito cresce a una velocità superiore, allora si deve concludere che non si tratti di un affarone, se non per i consumatori di tasse.

E se si sostiene, come fa Sommella, che il problema fu l’interruzione della monetizzazione del debito, si deve tornare alle osservazioni che ho fatto in precedenza.

Paghiamo ancora oggi, non da ultimo perché è sempre rimasta maggioritaria l’idea che la crescita del Pil passi per il deficit, le nefandezze che i governi di centrosinistra iniziarono a fare dalla seconda metà degli anni Sessanta e che culminarono con il quasi default del 1992. Sarebbe almeno il caso di non rimpiangere quegli anni.

(Matteo Corsini)

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