Tra i favorevoli alla ricostituzione di qualcosa di simile all’Iri vi è anche Pellegrino Capaldo. Il quale, in un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore, si chiede:

“l’Italia può affidare la sua economia, il suo sviluppo, la sua crescita anche civile, il suo sistema infrastrutturale unicamente alle forze di mercato, ovvero ai privati, oppure è necessario qualcosa che disciplini e soprattutto che integri queste forze?

La domanda pare essere riferita a un sistema in cui lo Stato non interviene quasi per nulla. Qualcosa di abbastanza distante dalla realtà.

Capaldo è ovviamente dell’idea che l’intervento dello Stato serva, con le solite precisazioni.

Secondo me di un qualcosa che assomigli all’Iri abbiamo bisogno, evitando, naturalmente, alcuni errori commessi in passato.”

Come no: abbiamo imparato la lezione.

Per Capaldo il capitalismo italiano non va bene.

In Italia abbiamo un capitalismo estremamente fragile, direi (senza offesa per nessuno) di «rapina» o «mordi e fuggi», attento al profitto di breve termine: l’impresa è vista solamente come generatrice di profitto, nulla più. Si può fare certo qualche eccezione citando «imprenditori illuminati» che, però, non cambiano la sostanza delle cose. L’impresa si preoccupa soltanto del profitto e tutto quello che avviene fuori dai suoi cancelli non le interessa o le interessa pochissimo. Abbiamo pochi imprenditori capaci di guardarsi intorno e, all’occorrenza, di sacrificare il profitto per far fronte a qualcosa che non va nella società. Con un capitalismo così largamente ripiegato su se stesso nella ricerca del profitto e poco attento al mondo circostante, è chiaro che non possiamo lasciare tutto nelle mani dei privati. Occorre preoccuparsi delle infrastrutture, per le quali la logica del profitto non va bene. L’esperienza di questi anni ci dice che almeno le grandi debbono passare in mano pubblica. Ai privati, al più si può consentire di gestirle secondo precisi capitolati. Con la diffusa corruzione che ci affligge, è bene che le infrastrutture siano in mano pubblica. Certamente la costruzione e, poi, forse anche la gestione, se non riusciamo ad escogitare formule idonee a prevenire abusi da parte dei privati.

A mio parere la parte peggiore dell’imprenditoria italiana è quella che incarna il corporativismo, un fenomeno che l’Italia ha generato ai tempi del fascismo e che ha anche esportato altrove.

Ciò detto, non so a quali infrastrutture si riferisca Capaldo, ma mi pare che le principali siano in realtà di proprietà pubblica e al più date in concessione a privati. Contrariamente a lui, io credo che la corruzione aumenti all’aumentare della presenza dello Stato. L’Unione sovietica (prima di implodere) e la Cina di oggi non sono certo esempi di Paesi a forte presenza dello Stato (eufemisticamente parlando) e bassa diffusione della corruzione.

Poi viene il consueto richiamo alla necessità di avere una politica industriale:

Per quanto riguarda più propriamente l’attività di impresa, è chiaro che dobbiamo darci una politica industriale e questo, con il tipo di capitalismo che abbiamo è possibile solo con l’intervento pubblico. L’intervento pubblico deve porsi in alcuni snodi nevralgici e deve fare ciò che i privati non fanno, o perché sono richiesti grandi investimenti non alla loro portata o perché la loro redditività li scoraggia essendo ritenuta non congrua rispetto ai rischi.”

Direi che il problema è molto più spesso il secondo del primo. E se nessuna impresa privata ritiene adeguato il rapporto tra rendimento atteso e rischio, non vedo perché imporre ai pagatori di tasse di farsi carico coercitivamente di tale rischio, dato che chi prende queste decisioni non ne sopporta le ocnseguenze negative neppure in minima parte.

Infine, immancabile, l’intervento sulle aziende in crisi.

Poi vi sono, di tanto in tanto, le crisi di impresa. Il più delle volte si tratta di crisi superabili ma con la rapida immissione di nuovi capitali. Non sempre «altri» privati sono in grado di assicurare questa rapidità di intervento e allora non resta che il pubblico. E qui va sottolineata l’adozione di formule che impongano la successiva privatizzazione non appena ci sono le necessarie condizioni.

Se la crisi fosse realmente superabile con immissione di capitali, non credo vi sarebbe bisogno dello Stato. Il cui intervento è invocato quando l’obiettivo non è superare la crisi, ma mantenere sostanzialmente inalterata l’attività di un’impresa che, sul mercato, ha fallito.

Quando si sentono invocazioni sulla necessità di non avere neanche un esubero e sulla volontà di aumentare la produzione, come nel caso della ex Ilva, basta un minimo di buon senso per capire che la crisi resterà tale.

La produzione può anche aumentare, ma se ciò che viene prodotto non lo si riesce a vendere a un prezzo superiore ai costi, quella produzione resta fallimentare.

Non c’è politica industriale che possa cambiare la realtà. Motivo per cui un ritorno all’Iri o a qualcosa di simile finirebbe molto probabilmente per dissanguare ulteriormente i pagatori di tasse.

Meglio evitare.

(Matteo Corsini)

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