Commentando un passaggio delle considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, Luca Davi sul Sole 24Ore si è occupato degli effetti dello spread sui bilanci delle banche italiane, che sono notoriamente sovraccariche di BTP.

Scrive Davi:

Nei portafogli delle banche italiane ci sono sempre più BTp. Ma complice il pressing della Vigilanza, gli istituti stanno facendo importanti passi avanti per ridurre l’impatto della volatilità dei prezzi dei bond di Stato tramite manovre contabili ad hoc. E però, se per un verso le banche si difendono dal surriscaldamento dello spread, dall’altro pagano dazio in termini di minor redditività.”

Ed ecco la spiegazione:

La questione è tecnica, ma l’effetto è di assoluta sostanza. A ogni rialzo dello spread, le banche devono assorbire il deprezzamento dei titoli di Stato tramite il patrimonio: la perdita, in particolare, è relativa ai bond che gli istituti decidono di non trattenere a bilancio fino alla scadenza, ovvero quelli destinati al trading. Una via d'uscita c'è. E prevede di classificare i bond governativi al loro costo ammortizzato, per la loro vita residua. In questo caso, il saliscendi dei prezzi – che è tornato a farsi evidente, come dimostra il rialzo dello spread - viene neutralizzato sul bilancio. Va proprio in questa direzione la richiesta fatta, sotto traccia, dalla Vigilanza alle banche nel corso dell’ultimo anno. Dal 2017 al 2018, la quota di bond italiani classificati dagli intermediari nel portafoglio delle attività valutate al costo ammortizzato è così raddoppiata, passando dal 27,6% al 55,6 per cento. Ancor più impressionante è stato il cambio di approccio da parte degli intermediari minori (less significant): in questo caso il balzo è dal 30,7% al 74 percento. Si parla in particolare delle banche cooperative e delle piccole e medie popolari, che storicamente hanno trovato nei titoli di Stato una delle loro tradizionali forme di investimento. Il pressing di Via Nazionale si è reso necessario in particolare dopo la riacutizzazione del rischio Italia avvenuto a partire dal maggio 2018, ovvero dalla diffusione del contratto di governo tra Lega e M5S. Nei mesi successivi, mentre lo spread saliva, lo stock di titoli italiani cresceva del 13,7%, complici acquisti netti di titoli di Stato per oltre 50 miliardi. A fine 2018, i titoli in portafoglio alle banche italiane erano pari a 378 miliardi, un numero che è salito a quasi 400 miliardi ad aprile, secondo i dati Bce.

Secondo Davi:

L’aspetto positivo di questa mossa è che così facendo gli istituti allentano il legame tra rischio Italia e bilanci. Di converso, tuttavia, i BTp sono sempre meno destinati a diventare una fonte di ricavo da trading. Perché, come evidenziato nella relazione di Bankitalia, il cambio di classificazione «pone maggiori vincoli a un’eventuale vendita dei titoli sul mercato secondario».”

Quello che Davi riporta e che tra l’altro rappresenta un punto di vista molto diffuso anche tra gli addetti ai lavori, è basato sulla erronea convinzione che sia la realtà ad adeguarsi alle convenzioni contabili, e non queste ultime a dover essere disegnate in modo tale da fornire una rappresentazione “veritiera e corretta” della realtà.

Innanzi tutto Davi omette di ricordare che nel 2018 è entrato in vigore il principio contabile IFRS9 in materia di classificazione e valutazione degli strumenti finanziari, che ha sostituito il precedente IAS39. Senza entrare troppo nei dettagli, IFRS9 ha reso meno rigida la categoria dei titoli non destinati alla vendita, consentendo un seppur limitato turnover.

Questo, unitamente all’esplosione dello spread di fine maggio 2018, ha indotto le banche a classificare in tale modo una parte crescente di titoli di Stato, per evitare un impatto contabile (ancorché temporaneo, se non si verifica un default) sul patrimonio, sia esso derivante da perdite da registrare a conto economico (per i titoli destinati al trading) sia derivante da accantonamenti ad apposite riserve (per i titoli non destinati al trading, ma comunque disponibili per la vendita).

E’ vero che i titoli detenuti nel portafoglio a costo ammortizzato non richiedono una valutazione a prezzi di mercato, con conseguente impatto sul patrimonio come sopra accennato. E’ altrettanto vero, però, che il problema non è solo la minore possibilità di realizzare le eventuali plusvalenze dati i limiti al turnover.

E’ infatti necessario ricordare che le banche devono finanziare le posizioni in titoli di Stato, utilizzando gli stessi come collaterale. E la quantità di fondi reperibili a finanziamento delle posizioni è determinata dal soggetto finanziatore (BCE inclusa) applicando una decurtazione (haircut) al valore di mercato, non al valore nominale.

Ne consegue che se il prezzo di mercato è significativamente inferiore a quello di carico, la banca che deve finanziare la posizione si trova nella necessità di reperire altrove il funding mancante. Questo è definito funding liquidity risk e non deve essere sottovalutato.

Per di più, tanto la finanziabilità, quanto l’accantonamento (impairment) che le banche devono effettuare sui titoli valutati a costo ammortizzato dipendono dal rating e dalla sua variazione nel tempo.

Quindi direi che il legame tra il rischio Italia e i bilanci delle banche non si è affatto allentato.

(Matteo Corsini)