Il dottor Dalrymple in attesa in un aeroporto legge un articolo che parla di razza, come viene intesa di questi tempi

(il titolo è un gioco di parole su "genuine article", espressione inglese con il significato di "esemplare autentico")

Theodore Dalrymple (takimag, 14 aprile 2018)

La razza è un tema sul quale tutti noi ci sentiamo leggermente nervosi di questi tempi, perché qualsiasi sia il nostro atteggiamento  qualcuno dirà che siamo razzisti, un'accusa per la quale nessuna dichiarazione di innocenza è permessa o creduta. Questo avviene perché è quasi impossibile essere coerenti sulla razza, ed è per questo che, in generale, evito questo argomento.

Ci viene detto da una parte che il concetto stesso di razza è un costrutto malvagio senza validità oggettiva, il cui obiettivo principale è quello di giustificare il pregiudizio; dall'altra parte, riviste mediche perfettamente rispettabili sono piene di articoli in cui la razza è usata per categorizzare i pazienti e fare generalizzazione epidemiologiche, ad esempio quella per cui l'ipertensione tra i neri è relativamente difficile da trattare, o la gente proveniente dall'Asia meridionale è altamente suscettibile alle malattie coronariche.

La genetica delle popolazioni ci dice che alcuni geni sono più frequentemente diffusi in alcune popolazioni rispetto ad altre, nonostante naturalmente esse si mescolino le une con le altre. Il fatto che le cose si verifichino in un continuum non significa che non ci siano differenze. Le lunghezze d'onda dell'arcobaleno sono un continuum, ma questo non significa che il rosso non sia diverso dall'indaco o dal violetto.

In realtà, è difficile sfuggire al concetto di razza o non attribuirgli rilevanza, contrariamente a quanto veniamo convinti che dovremmo fare. Esattamente quanto è difficile mi è apparso ben illustrato quando, mentre aspettavo in un aeroporto per il mio volo, mi è capitato di leggere il quotidiano spagnolo di area liberal (nel senso nordamericano - N.d.T. cioè progressista) El País.  C'era un articolo scritto da un cileno che trasudava sia orgoglio sia senso di colpa di razza.

L'articolo conteneva informazioni che -- assumendo siano vere -- a me sono risultate sia nuove sia interessanti. Negli ultimi anni, il Cile, il cui tasso di natalità è sceso sotto la soglia per il mantenimento della popolazione, come in molti paesi in Europa, è stato la destinazione di 150.000 migranti haitiani. Hanno scelto il Cile per la sua fiorente economia (nessuna menzione, ovviamente, su chi è stato a riavviare l'economia). Questi migranti lavorano soprattutto nel settore agricolo, in forte espansione.

Secondo l'autore dell'articolo, nonostante sia un complimento implicito al loro paese non tutti i cileni ne sono felici, perché essi covano sentimenti razzisti, sebbene il Cile sia quanto di più lontano possibile da un paese di razza pura (se una cosa simile esiste davvero fuori dall'immaginario nord-coreano). Chiaramente l'autore pensa che questo sia una gran brutta cosa.

Il suo articolo, tuttavia, comincia così:

Come altri cileni, io sono orgoglioso della mia macchia mongolica. È un segno bluastro congenito che appare sulla pelle dei neonati di stirpe indigena o asiatica.

E alla fine dell'articolo scrive:

Secondo i genetisti la mia macchia mongolica, questo segno degli indiani d'America la cui ombra porto orgogliosamente sulla spalla, potrebbe avere anche origini africane. Ancora meglio.

Egli è, a proposito, principalmente di stirpe nordica. Egli termina l'articolo con uno svolazzo retorico:

Gli indigeni [Indiani d'America] e gli africani che danzano nel mio sangue abbracciano questi nuovi fratelli che arrivano in Cile.

Tutto ciò è piuttosto curioso per qualcuno che sta scrivendo contro il razzismo, perché implica che egli dia il benvenuto agli haitiani non puramente in quanto uomini, ma perché essi sono, o potrebbero essere, collegati a lui per razza. Implica anche che gli Indiani d'America abbiano, come razza, qualche tipo di sentimento particolarmente favorevole per la gente di stirpe africana. Non so se come generalizzazione sociologica questo sia vero, ma se lo è, sicuramente non è in virtù di sangue che scorre, o persino danza, nelle loro vene. Certamente, l'idea stessa di pensieri o sentimenti trasmessi ematologicamente ha una connotazione storica piuttosto spiacevole, della quale l'autore, nella sua compiacenza morale, sembra proprio inconsapevole.

Egli sistema le razze umane in una gerarchia, sebbene non quella tradizionale in base all'intelligenza, da inferiore a superiore, ma in base a quanto sono vittime. Presumibilmente è ancora meglio, come egli dice, avere discendenza africana piuttosto che indigena americana, perché gli africani sono stati trattati ancora peggio degli indiani d'America e quindi sono maggiormente vittime. Avendo sangue nero che scorre nelle vene egli partecipa al loro essere vittime, il che, naturalmente, trasmette su di lui l'autorità morale di un martire vittimizzato, nonostante lui possa essere andato nelle migliori scuole, ecc. Che egli sia principalmente di stirpe norvegese è, in contrasto (e come corollario), una questione di cui vergognarsi che infanga qualsiasi cosa egli possa aver raggiunto nella vita, perché i suoi successi devono essere stati il risultato di privilegio, vale a dire il privilegio insito nel suo sangue.

Ai tempi in cui Haiti era ancora una colonia francese, c'era una tabella di discendenza razziale che includeva 64 gradi di purezza bianca, cioè avere un nonno del nonno del nonno nero era sufficiente a inquinare il sangue. L'autore di questo articolo concorderebbe con questo punto di vista con tutto il cuore, eccetto che, naturalmente, egli assegnerebbe un valore differente, o opposto, al sangue che i francesi avrebbero considerato inquinante. Né ripeterò il vecchio detto del Sud sulla goccia di sangue, un'altra cosa con la quale l'autore concorderebbe, eccetto che una goccia di sangue africano nel suo caso laverebbe via tutti i  peccati, più o meno come le acque del Gange a Allahabad durante la  Kumbh Mela.

La questione di orgoglio (o vergogna) razziale o nazionale è di tale complessità che preferisco non pensarci, spazzandola via sotto il mio tappeto mentale, il luogo dove stanno tanti problemi. Gran parte dei patrioti, ad esempio, sono orgogliosi dei successi del loro paese -- di solito, il paese in cui sono nati -- persino se essi personalmente non vi hanno contribuito per nulla. Questo orgoglio non dovrebbe essere completamente deprecato, in quanto spesso opera come sprone per ulteriori successi, sebbene possa anche portare a senso di superiorità o disprezzo verso gente di altre nazioni. Per quanto riguarda il senso di colpa collettivo, a volte esso può portare alla determinazione di non permettere mai più a qualcuno di ripetere lo stesso crimine odioso, anche dove l'individuo coinvolto non ha nessuna responsabilità personale in quel crimine.

Ma l'articolo su El País mi è sembrato avesse il timbro di autentica scemenza.

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