Uno dei mantra che vede pressoché tutti concordi in Italia è quello dell’esclusione delle spese per investimenti dal calcolo del deficit pubblico. Magari investimenti “green”, che sono tanto politically correct. 

Per l’ennesima volta lo auspica Pier Carlo Padoan, tra gli specialisti, quando era ministro dell’Economia nei governi renziani, nella redazione di documenti di economia e finanza primaverili che promettevano riduzioni di deficit e debito, salvo poi in autunno andare a Bruxelles su mandato di Mr Leopolda a contrattare di fare più deficit da iscrivere alla voce “flessibilità”.

Secondo Padoan:

Il patto di stabilità andrebbe modificato andando ad analizzare il tipo di spesa. Ad esempio gli aumenti degli stipendi dei dipendenti pubblici andrebbero calcolati nel deficit perché sono spesa corrente. Invece le spese per gli investimenti a favore di capitale umano, innovazione, ricerca e infrastrutture (magari quelle che proteggono l'ambiente) non dovrebbero essere calcolati nel deficit.”

A costo di essere ripetitivo, credo debba essere ribadito che le convenzioni contabili dovrebbero riflettere la realtà, non cambiarla (in meglio).

A parte il fatto che se la definizione di “investimento” è determinata a livello politico, nel tempo è altamente probabile che anche la peggior spesa parassitaria riceva tale etichetta, resta sempre lo scoglio della realtà: la spesa va comunque finanziata, anche se non contabilizzata nel deficit.

In altri termini, se una spesa è in eccesso rispetto alle entrate, per finanziarla è necessario emettere debito pubblico, il che non può fa altro che aumentare lo stock del debito stesso.

Qui i keynesiani alle vongole ribattono che gli investimenti hanno moltiplicatori miracolosi, in grado di fare aumentare il Pil ben più del debito, cosicché si abbasserebbe il rapporto tra quest’ultimo e il Pil. Peccato che finora non sia stato così e che, finanziariamente, sarebbe necessaria una crescita nominale del Pil superiore al costo del debito contratto per gli investimenti miracolosi.

E’ vero che il recente calo dei rendimenti dei titoli di Stato ha ringalluzzito i keynesiani alle vongole di cui sopra, ma sarebbe quanto meno imprudente dare per scontato che si tratti di una situazione strutturale, mentre pare esserlo ben di più la anemica crescita del Pil (quando non si tratta di decrescita).

In definitiva, l’effetto palla di neve del debito pende ancora in senso sfavorevole all’andamento del rapporto tra debito e Pil; si può quindi fare finta che una determinata spesa non comporti deficit, ma questo non cambia la realtà. Con la conseguenza che le tasse, prima o poi, dovranno esplicitamente o implicitamente (inflazione) pagare quel debito.

I sogni dei keynesiani alle vongole sono incubi per i pagatori di tasse.

(Matteo Corsini)

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