Coloro che insegnano materie economiche nelle università italiane sono in molti casi (neo)keynesiani. A loro volta si distinguono per essere accademicamente favorevoli a utilizzare il deficit per finanziare investimenti pubblici dai moltiplicatori mirabolanti, salvo poi, nell’eventualità di essere chiamati a fare parte di un governo, finanziare in deficit spesa corrente. La storia italiana è piena di esempi in tal senso.

Tra i keynesiani accademici c’è Gustavo Piga, il quale, partendo dalla situazione politica che è venuta sviluppandosi nelle ultime settimane, offre questa proposta per la prossima legge di bilancio, qualora si formasse un governo M5S-PD.

Piga parte dal presupposto che l’Europa dovrebbe ammorbidirsi, perché “il futuro dell’Europa passa per Roma e tirare la corda ulteriormente non farebbe che portare munizioni alla retorica di Salvini. Questo banale dato di fatto costituisce tuttavia anche un’opportunità per i due partiti: un’Europa terrorizzata dalla prospettiva sovranista è oggi disposta a concedere molto di più alle forze pro-europee italiane di quanto non abbia fatto sinora, rimuovendo l’alibi del “ce lo chiede l’Europa”.”

Ovviamente il presupposto implicito è che il deficit sia benefico, altrettanto ovviamente se fatto per finanziare investimenti dai moltiplicatori stellari.

Ecco quindi la terza via di Piga:

Diventa dunque essenziale conoscere se esista una terza via per la politica economica, diversa da quella sovranista ma al contempo lontana da quella europea del Fiscal compact che ha caratterizzato in maniera nefasta l’ultimo decennio, e tale da poter essere sposata da ambedue i partiti.”

Esiste? Certo che esiste.

Richiede innanzitutto un rispetto formale di alcune regole europee non negoziabili, in particolare quelle legate al deficit su Pil del 3% come linea Maginot degli sforamenti di bilancio in tempo di difficoltà. In cambio di questa concessione all’Europa, l’Italia di tale insolita coalizione dovrebbe richiedere di poter rimanere al 3% fino all’uscita definitiva dalla stagnazione, un’eccezione significativa al Fiscal compact che richiede comunque e sempre una convergenza al bilancio in pareggio nel giro di tre anni. Nuovamente in cambio, l’Italia garantirebbe due ulteriori condizioni: che le risorse così liberatesi verrebbero usate solo per fare investimenti pubblici che stimolano al contempo domanda “per” e produttività “delle” nostre aziende e che ulteriori aumenti di spesa o diminuzioni di imposte avverrebbero via spending review.”

A me questo ricorda vagamente il proposito renziano elaborato (e messo anche in un libro) nei mesi precedenti le elezioni politiche del 2018.

Ancora Piga:

Cosa implicherebbe questo patto per le manovre di finanza pubblica? Con un deficit-Pil, come quello odierno, già attorno al 3% in assenza di aumento dell’Iva, praticamente nulla: non vi sarebbe in effetti spazio per ulteriori investimenti pubblici (una spending review seria richiede tempo), e il vantaggio di questo accordo si limiterebbe solo a escludere ulteriori danni da austerità, non a generare benefici, troppo poco per sconfiggere i sovranisti. Una soluzione c’è: lasciar aumentare l’Iva, guadagnando ben 23 miliardi di risorse che potrebbero essere usate per gli investimenti pubblici in tutto il Paese. L’impatto di questa manovra, chiamata anche del “moltiplicatore in pareggio”, è noto e positivo per la crescita: se è vero che la domanda privata sarebbe in parte depressa dall’aumento delle imposte indirette, l’impatto positivo dei maggiori investimenti pubblici lo sovrasterebbe, sia nel breve che nel medio periodo. E due anni sono quanto bastano a questa anomala coalizione per dimostrare la bontà di tale scelta all’elettorato, in termini di ripresa e sviluppo.”

In sostanza, la mazzolata fiscale dagli effetti strutturali servirebbe non a ridurre il deficit, bensì a finanziare questi fantomatici e miracolosi investimenti pubblici. Piga si dice sicuro che una manovra del genere, avrebbe un effetto netto positivo sul Pil, e pare che dobbiamo fidarci della sua parola. 

Probabilmente Piga citerebbe della letteratura scientifica utile a portare acqua alla sua tesi. A mio parere resta un problema fondamentale, che si aggiunge all’osservazione che il dato certo sarebbe l’ulteriore aumento delle tasse, ossia l’ulteriore violazione del principio di non aggressione ai danni dei pagatori di tasse.

Tale problema consiste nel fatto che, data la situazione di partenza dei conti pubblici e il costo marginale del debito pubblico, è lecito avere più di un dubbio sulla possibilità di avere investimenti che si paghino da soli, ossia il cui ritorno sia superiore al costo. 

Che è poi la condizione necessaria, in finanza, per avere un effetto positivo nell’utilizzo della leva del debito. Condizione che diventa sempre più difficile da realizzare all’aumentare dello stock di debito, dato che il premio per il rischio chiesto dai finanziatori tende ad aumentare. Il tutto al netto di considerazioni sulle storiche inefficienze (per non dire di peggio) che caratterizzano gli investimenti pubblici in Italia (e non solo).

Se questa è la terza via…

(Matteo Corsini)

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