Quando non uno, bensì due esponenti del M5S scrivono assieme un articolo, una buona euristica suggerisce che il tasso di sciocchezze tenda a essere doppio.

Per esempio, occupandosi di istruzione, Lorenzio Fioramonti (Viceministro del Miur) e Paolo Lattanzio (capogruppo M5S in commissione Cultura alla Camera dei deputati), scrivono tra le altre cose:

Se l’Italia è l’unico Paese a non aver ancora recuperato il livello di ricchezza precedente la crisi, il motivo principale è da ricercare nelle scelte scellerate di politica economica portate avanti finora dai governi di ogni tendenza politica. Negli anni sono state abbandonate a se stesse quasi tutte le grandi eccellenze produttive (Olivetti, Telecom, Montedison, etc.), scomparse o diventate terreno di conquista per investitori interessati al guadagno rapido, facendo quindi mancare il catalizzatore pubblico di attività economiche ambiziose nelle tecnologie avanzate.”

Fioramonti e Lattanzi confermano l’impostazione (iper)statalista del M5S, che vede nel disimpegno presunto dello Stato, e non nella sua eccessiva presenza, la causa principale del fatto che non si sia ancora recuperato il livello di ricchezza precedente la crisi. Senza peraltro che ciò sia provato da alcun dato (ciò che sarebbe peraltro impossibile).

Tesi che vanno bene a chi probabilmente si trastulla con i libri di Mariana Mazzucato e che tendono a vedere nel passato delle partecipazioni statali qualcosa da rimpiangere nonostante i miliardi di denaro dei pagatori di tasse andati perduti.

Altro problema, per Fioramonti e Lattanzi:

Inoltre, e forse anche con effetti più gravi, si è perseguita con inesplicabile tenacia una politica di abbassamento dei salari (e drastico peggioramento delle condizioni di lavoro) come unico strumento di competitività. Sfruttando bassi salari e un’ampia tolleranza del lavoro nero e dell’evasione fiscale, le aziende italiane non hanno avuto alcun incentivo a crescere in dimensione e a ristrutturarsi per far fronte alle sfide globali, incamerando profitti scarsi ma sicuri senza dover correre alcun rischio imprenditoriale.”

L’Italia, non da oggi, ha un problema di produttività. Si può anche essere d’accordo che non lo si possa risolvere solo agendo sul costo del lavoro (peraltro gravato da una pesante tassazione), ma sul versante della crescita degli investimenti è necessario che le imprese operino in condizioni quanto meno non ostili per vedere dei progressi.

In un Paese in cui le norme, fiscali e non, cambiano praticamente ogni anno, per di più con effetto retroattivo, e non vi è alcuna concreta programmabilità da parte delle imprese, investire diventa spesso proibitivo. L’orientamento politico del M5S, da questo punto di vista, non fa sperare in un miglioramento delle condizioni per chi vuole investire.

Ovviamente Fioramonti e Lattanzi sono di diverso avviso:

Il governo del cambiamento ha cominciato l’inversione di tendenza, sottraendo la popolazione a rischio povertà dal ricatto del lavoro nero e riducendo la piaga del precariato a tempo indefinito.”

A dire il vero è abbastanza arduo sostenere che le cose possano migliorare se si introducono forti incentivi a non lavorare. Perché, in attesa di capire cosa faranno i navigator oltre a percepire uno stipendio, è lecito avere dei dubbi sul fatto che il reddito di cittadinanza non sia altro che un sussidio di disoccupazione strutturale.

Però tranquilli, ci sono misure allo studio.

Sono già allo studio misure per favorire la riconversione del sistema produttivo verso settori avanzati, come la diffusione di energie rinnovabili. La lotta contro l’evasione e la dignità del lavoro non è solo motivata dall’obbligo alla difesa dei più deboli, ma ha anche l’effetto di favorire le imprese nei settori che garantiscono profitti maggiori grazie alla qualità dei prodotti, e non al loro basso prezzo.”

Come no: avanti tutta con le energie rinnovabili, che fanno tanto politicamente corretto, ma che a oggi per lo più campano di sussidi. Chi paga?

Last, but not least, investimenti nell’università.

Infine, è da considerare che l’Italia risulta l’ultimo tra i Paesi per numero di laureati, e i titoli di studio contano non solo per definire le capacità dei lavoratori, ma anche per la composizione della società. È quindi necessario investire anche in un programma volto ad aumentare l’accesso universitario a un numero almeno doppio dei diplomati rispetto ad oggi, allo scopo di raggiungere almeno la media Ocse di laureati.”

Sarebbe in primo luogo apprezzabile se chi arriva al diploma se la cavasse un po’ meglio, mediamente, nel parlare italiano, inglese e nell’avere conoscenze della matematica che vadano almeno un po’ oltre le tabelline. Oggi non non è sempre così. Poi si pensi pure ad aumentare i laureati, ma riconoscendo che non tutte le lauree sono uguali e non tutti i percorsi di studio offrono sbocchi lavorativi.

Considerando che l’istruzione è, di fatto, un monopolio statale, cosa fa supporre che spendendo più soldi in qualcosa di cui si continua a riconoscere i fallimenti porterà a migliori risultati?

(Matteo Corsini)

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