di Joseph Salerno (LewRockwell.com, 12 novembre 2014)

Estratto e adattato da “ Imperialism and the Logic of War Making”, da Mises.org, 2006

Tutti i governi presenti e passati, indipendentemente dalla loro organizzazione formale, implicano il comando di pochi sui molti. In altre parole, tutti i governi sono fondamentalmente oligarchici. Ci sono due ragioni per questo. Primo, i governi sono organizzazioni non produttive che possono sussistere solo estraendo beni e servizi dalla classe produttiva nel loro dominio territoriale. Quindi la classe dominante deve rimanere una minoranza della popolazione per poter estrarre risorse continuamente dai sudditi o cittadini. Un genuino "governo della maggioranza" su base permanente è impossibile in quanto avrebbe come risultato un collasso economico, dal momento che i tributi o tasse espropriati dai più numerosi governanti spoglierebbero la minoranza occupata in pacifiche attività produttive delle risorse necessarie per sostenersi e riprodursi. Il governo della maggioranza porterebbe inevitabilmente ad un violento conflitto tra fazioni della classe dominante, il quale terminerebbe con un gruppo che stabilisce il dominio oligarchico e sfrutta economicamente i suoi ex associati.

Il secondo fattore a rendere il dominio oligarchico praticamente inevitabile è legato alla legge dei vantaggi comparati. La tendenza verso la divisione del lavoro e la specializzazione basata sulle ineguali doti di abilità pervade tutti i settori dell'attività umana. Così come solo un piccolo segmento della popolazione è adatto a cimentarsi nel football professionistico o a dare consulenze finanziarie, così solo una minuscola frazione della popolazione tende ad eccellere nell'esercizio di potere coercitivo. Uno scrittore ha riassunto così questa Legge Ferrea dell'Oligarchia: "In tutti i gruppi umani in tutti i tempi ci sono i pochi che comandano e i tanti che sono comandati."[1]

La natura intrinsecamente non produttiva e oligarchica del governo rende quindi certo che tutte le nazioni sotto dominio politico sono divise in due classi: una classe produttiva e una classe parassita o, nella calzante terminologia del filosofo politico americano John C. Calhoun, "chi paga le tasse" e "chi consuma le tasse".

Il re e la sua corte, i politici eletti e i loro alleati (burocrati e grandi lobby economiche), il dittatore e i suoi apparatchik di partito - questi sono storicamente i consumatori di tasse e, non per coincidenza, i promotori della guerra. La guerra presenta numerosi vantaggi per la classe dominante. Il primo e principale vantaggio è il fatto che la guerra contro un nemico straniero nasconde il conflitto di classe interno alla nazione, nel quale la classe dominante minoritaria coercitivamente sottrae le risorse della maggioranza della popolazione, che produce e paga le tasse, abbassandone lo standard di vita. Convinti che si stiano assicurando le loro vite e le loro proprietà contro una minaccia esterna, gli sfruttati contribuenti sviluppano una "falsa coscienza" di solidarietà politica ed economica con i loro dominatori interni. Una guerra imperialistica contro uno stato estero debole, ad esempio Grenada, Panama, Haiti, Iraq, Afghanistan, Iran, ecc., è particolarmente allettante per la classe dominante di una nazione potente come gli Stati Uniti, perché minimizza il costo di perdere la guerra e la possibilità di essere rimpiazzati da rivoluzioni locali o dai dominatori dello stato straniero vittorioso.

Un secondo vantaggio della guerra è che essa fornisce alla classe dominante una straordinaria occasione per intensificare lo sfruttamento economico dei produttori tramite tasse di emergenza per la guerra, inflazione monetaria, lavoro forzato e altro. La classe produttiva, in genere, soccombe a questo aumentato saccheggio del suo reddito e della sua ricchezza con qualche lamentela ma poca resistenza reale, perché è persuasa che i suoi interessi siano tutt'uno con quelli dei promotori della guerra. Inoltre, almeno sul breve termine, la guerra moderna dà l'impressione di portare prosperità a molta della popolazione civile perché è finanziata in gran parte tramite la creazione di denaro.

Arriviamo pertanto ad una universale, prasseologica verità sulla guerra. La guerra è il risultato del conflitto di classe intrinseco nella relazione politica - la relazione tra governanti e governati, parassiti e produttori, consumatori di tasse e contribuenti. La classe parassita intraprende le guerre deliberatamente, al fine di nascondere e incrementare lo sfruttamento della molto più ampia classe produttrice. Può anche ricorrere alla guerra per sopprimere un dissenso in crescita tra membri della classe produttiva (libertari, anarchici, ecc.) che sono divenuti consapevoli della natura fondamentalmente sfruttatrice della relazione politica, ponendo una minaccia di propagare questa consapevolezza tanto maggiore quanto i mezzi di comunicazione diventano più economici e più accessibili, per esempio la radio, la televisione, Internet, ecc. Inoltre, il conflitto tra dominatori e dominati è una condizione permanente. Questa verità è riflessa - forse non del tutto consciamente - nell'antico detto che equipara la morte e le tasse quali aspetti inevitabili della condizione umana.

Perciò, uno stato permanente di guerra o di preparazione alla guerra è ottimale dal punto di vista della élite dominante, specialmente quella che controlla uno stato grande e potente. Prendete ad esempio l'attuale governo degli Stati Uniti. Governa su un'economia relativamente popolosa, prospera e in crescita, dalla quale può estrarre malloppi di bottino sempre più grandi senza distruggere la classe produttiva. Nonostante questo, è soggetto al timore reale e persistente che prima o poi gli americani produttivi riconoscano il carico sempre in crescita di tasse, inflazione e regolamentazioni per quello che veramente è - puro sfruttamento. Quindi il governo americano, il più potente mega-stato della storia, è guidato dalla logica stessa della relazione politica a perseguire una politica di guerra permanente.

Dalla "Guerra per rendere il mondo sicuro per la democrazia" alla "Guerra per porre fine a tutte le guerre" alla "Guerra fredda" all'attuale "Guerra al terrore", le guerre intraprese dai governi americani nel ventesimo secolo sono cresciute da guerre episodiche ristrette a teatri e nemici ben definiti, ad una guerra senza confini spaziali o temporali contro un nemico incorporeo chiamato "Terrore". Un nome più appropriato per questa guerra architettata dai neoconservatori comporterebbe un semplice cambio di preposizione, diventando "Guerra di terrore" - perché lo stato americano è terrorizzato dagli americani produttivi che lavorano quotidianamente, i quali potrebbero un giorno svegliarsi e porre fine ai saccheggi enormi ai danni delle loro vite e proprietà, e forse alla classe dominante stessa. Nel frattempo, la Guerra al Terrore è una guerra imperialistica senza prospettiva di fine di un tipo che neanche potevano sognare i famigerati guerrafondai del tempo che fu, dai patrizi romani ai nazionalsocialisti tedeschi. L'economista Joseph Schumpeter è stato uno dei pochi non-marxisti ad affermare che lo stimolo primario alla guerra imperialistica è l'inevitabile scontro di interessi tra governanti e governati. Prendendo come esempio un mega-stato del passato. la Roma imperiale, Schumpeter scrisse:

Ecco il classico esempio ... di quella politica che pretende di aspirare alla pace ma che immancabilmente genera guerra, la politica di continua preparazione alla guerra, la politica di interventismo invadente. Non c'era angolo del mondo conosciuto in cui qualche interesse non fosse presumibilmente o in pericolo o sotto reale attacco. Se tali interessi non erano romani, erano quelli degli alleati di Roma; e se Roma non aveva alleati, allora si inventavano degli alleati. Quando era completamente impossibile individuare un interesse siffatto, allora era l'onore nazionale che era stato insultato. La battaglia era sempre investita di un'aura di legalità. Roma era sempre sotto attacco da malvage popolazioni confinanti, che combattevano sempre per espandersi. Il mondo intero era permeato di orde di nemici, per cui era manifestamente dovere di Roma stare in guardia contro i loro progetti indubbiamente aggressivi. C'erano nemici che non vedevano l'ora di riversarsi sul popolo romano. Non c'è modo di comprendere queste guerre di conquista dal punto di vista di obiettivi concreti. ... C'è solo una via per trovare una spiegazione: attenzione agli interessi di classe interni, la questione di chi aveva qualcosa da guadagnarci. ... Grazie alla sua particolare posizione di fantoccio democratico di politici ambiziosi e di portavoce di una volontà popolare ispirata dai governanti, il proletariato romano ottenne realmente i benefici del bottino di guerra. Fintanto che c'erano buone ragioni di mantenere la pretesa che la popolazione di Roma costituisse il popolo romano e potesse decidere i destini dell'impero, molto dipendeva dalla sua favorevole disposizione. ... Ma di nuovo, l'esistenza stessa, in numeri così grandi, di questo proletariato, così come la sua importanza politica, era in conseguenza di un processo sociale che spiega anche la politica di conquista. Questa era la connessione causale: l'occupazione di terra pubblica e la rapina di terra agricola formava la base di un sistema di grandi latifondi, che operava estensivamente e con lavoro di schiavi. Al tempo stesso i contadini destituiti confluivano nella città e i soldati rimanevano senza terra - da qui la politica della guerra.

Questa lunga citazione di Schumpeter descrive vividamente come l'esproprio dei contadini da parte dell'aristocrazia dominante creasse una permanente ed irreparabile divisione di classe nella società romana, che portò ad una politica di imperialismo senza limiti e guerra perpetua. Questa politica era progettata per sommergere sotto una marea di gloria nazionale e di bottino di guerra il radicato conflitto di interessi tra i proletari espropriati e l'aristocrazia latifondista.

La democrazia e le guerre imperialistiche

L'analisi di Schumpeter spiega la forte propensione degli stati democratici a intraprendere guerre imperialistiche e perché l'Era della Democrazia è coincisa con l'Era dell'Imperialismo. Il termine "democratico" è usato qui nel senso ampio che include "democrazie totalitarie" controllate da "partiti" quali il Partito Nazional Socialista dei Lavoratori in Germania e il Partito Comunista nell'Unione Sovietica. Questi  partiti politici, distintamente dai movimenti puramente ideologici, nacquero nell'era della democrazia nazionalista di massa che ebbe i suoi albori nel tardo diciannovesimo secolo.[2]

Siccome le masse nei sistemi democratici sono profondamente imbevute dell'ideologia dell'egualitarismo e del mito del governo della maggioranza, le élite dominanti che controllano lo stato e ne beneficiano riconoscono l'estrema importanza di nascondere alle masse la natura oligarchica e sfruttatrice dello stato. La guerra perpetua contro nemici stranieri è un modo perfetto per mascherare il nudo scontro di interessi tra la classe che paga le tasse e la classe che le consuma.

Note


[1] Arthur Livingston, Introduzione in Gaetano Mosca, The Ruling Class: Elementi di Scienza Politica, ed. Arthur Livingston, trans. Hannah D. Kahn (New York: McGraw-Hill Book Company, 1939);  Sulla Legge Ferrea dell'Oligarchia, si veda per esempio anche Murray N. Rothbard, For a New Liberty: The Libertarian Manifesto, 2nd ed. (San Francisco: Wilkes & Fox, 1996), pp. 45–69.

[2] Sul concetto di  “democrazia totalitaria” si veda J.L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy (New York: W. W. Norton & Company, Inc., [1951] 1970). La mia concezione di democrazia totalitaria differisce da quella di Talmon perché egli applica il termine solo al "Totalitarismo della Sinistra" e non al "Totalitarismo della Destra" (ibid., pagg. 6–8).

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Nota [MM]

Credo che questo incisivissimo brano del 2006 di Joseph Salerno, tra tante altre cose, aiuti a gettare un po' di luce sul reale motivo per cui in questo momento sentiamo sempre dire che gli islamici sono così cattivi.

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